Cass. civ., sez. III, sentenza 22/06/2020, n. 12118
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Il soggetto che proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili in particolare quando il disconoscimento dell'autenticità non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento di documento "absque pactis", con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretto il procedimento inferenziale - relativo al presunto riempimento di una ricognizione di debito fuori da qualsiasi intesa - condotto anche in ragione del contrasto tra la data apposta in calce all'atto e quella riprodotta nel documento con cui era stato identificato il sottoscrittore, nonché dell'incompleta indicazione del codice fiscale di quest'ultimo e dell'erronea indicazione del luogo di nascita).
Sul provvedimento
Testo completo
121 18 /20 NEG Ricorrente obbligato al versamento . NOT. FOG ulteriore del contributo ORIGINALE чуена Oggetto CI.REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Abuso di biancosegno LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE querela di - falso- TERZA SEZIONE CIVILE Prova presuntiva -- Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Ammissibilità Dott. ULIANA ARMANO - Presidente - R.G.N. 24389/2017 Cron.12118 Dott. STEFANO OLIVIERI Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI Consigliere - Rep. Dott. GIUSEPPE CRICENTI Consigliere Ud. 11/12/2019 Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI Rel. Consigliere FU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 24389-2017 proposto da: RA BRINDISI DI ZZ EL & C. SAS in persona dell'amministratore unico e 1.r.p.t., presso la CANCELLERIAdomicialiato ex lege in ROMA, DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati MARCO SCOGNAMIGLIO, MASSIMILIANO SCOGNAMIGLIO, PASQUALE SCOGNAMIGLIO;
2019 ricorrente 2603
contro
CA IN erede universale dei coniugi CA EL e DE IM FI, elettivamente 1 domiciliato in ROMA, V.LUCIO PAPIRIO 83, presso lo rappresentato studio dell'avvocato ANTONIO AVITABILE, e difeso dall'avvocato LUIGI SCIALDONI;
controricorrente- nonchè
contro
DE IM FI ;
- intimata avversO la sentenza n. 3514/2017 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 31/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/12/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE che ha concluso per il rigetto del 1° motivo;
udito l'Avvocato MARCO SCOGNAMIGLIO;
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FATTI DI CAUSA
1. La società AR ND di NO LL & C. S.a.s. (d'ora in poi, "AR ND") ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3514/17, del 31 luglio 2017, della Corte di Appello di Napoli, che accogliendo il gravame esperito da ME De IM e NI AR, nella loro qualità di eredi di DE AR, contro la sentenza n. 5989/12, del 21 maggio 2012, del Tribunale di Napoli ha accolto la querela di falso proposta in corso di causa da DE AR, dichiarando la falsità della scrittura privata del 25 novembre 1997, della quale ha ordinato la cancellazione ex art. 537 cod. proc. pen., revocando, per l'effetto, il decreto ingiuntivo n. 5675/05, emesso dal Tribunale di Napoli ed opposto dal medesimo AR, condannando la società appellata, odierna ricorrente, a pagare le spese di entrambi i gradi di giudizio.
2. Riferisce, in punto di fatto, l'odierna ricorrente di aver presentato ricorso per decreto ingiuntivo innanzi al Tribunale di Q Napoli, affinché ingiungesse a DE AR di pagarle la somma di € 25.822,84, sulla base della ricognizione di debito da questi asseritamente operata con la già citata scrittura del 25 novembre 1997, documento prodotto in giudizio, inizialmente, solo in copia. Il provvedimento monitorio veniva, però, opposto dal AR, sul duplice rilievo del difetto di autenticità sia della sottoscrizione (peraltro, di seguito, riconosciuta dallo stesso come propria, allorché il documento venne esibito in originale), sia del contenuto della scrittura privata suddetta, assumendo l'opponente che la firma fosse stata apposta su un foglio in bianco, successivamente riempito in modo abusivo, ricorrendo, così, l'ipotesi del riempimento "absque pactis". Proposta, quindi, querela di falso, il deducente evidenziava, innanzitutto, il contrasto tra la data apposta in calce alla scrittura 3 privata e quella riportata nel documento con cui era stato identificato il sottoscrittore DE AR (carta di identità rilasciata solo nel 2001, a fronte di una scrittura datata, invece, 25 novembre 1997). Valorizzando, tuttavia, le altre prove articolate dalla società opposta (interrogatorio libero e prova testimoniale), il Tribunale partenopeo rigettava la querela di falso avverso il riconoscimento di debito, e con essa l'opposizione al decreto ingiuntivo, del quale dichiarava l'esecutorietà, condannando, infine, gli eredi del AR che - avevano riassunto il giudizio ex art. 645 cod. proc. civ., dopo l'interruzione conseguente al decesso del proprio dante causa al - pagamento delle spese processuali. Esperito gravame dagli eredi del AR avverso la sentenza del giudice di prime cure, la Corte territoriale lo accoglieva, riformando "in toto" la decisione impugnata. Essa, in particolare, perveniva a tale conclusione sul rilievo di alcune "significative discrepanze" presenti nella scrittura, quali l'errata indicazione del luogo di nascita del sottoscrittore (Napoli, e non invece Rossano), l'incompleta trascrizione del codice fiscale dello stesso e la già segnalata identificazione del AR sulla base di un documento d'identità rilasciato dopo la formazione della scrittura, ritenendo poco logica e verosimile l'ipotesi di una retrodatazione del documento, argomentata dall'allora appellata (peraltro, dopo aver inizialmente sostenuto la contestualità tra dazione del danaro e sottoscrizione dell'atto di ricognizione di debito). L'appellata, infatti, aveva sostenuto che, nel 1997, il padre del legale rappresentante della AR ND, ovvero LE NO, aveva dato in prestito a DE AR, in contanti, cinquanta milioni di lire, prelevandoli dalla cassaforte della società, senza pretendere la sottoscrizione di alcun documento che attestasse l'avvenuta dazione, stante il risalente rapporto di amicizia e fiducia tra mutuante e mutuatario. Solo in seguito, ed esattamente nel 2003, il NO, allorchè scoprì di essere affetto da una 4 malattia incurabile, avrebbe chiesto al AR, per cautelarsi, la sottoscrizione dell'atto di ricognizione di debito, retrodatandolo, ciò che spiegherebbe le rilevate discrepanze. Siffatta versione dell'accaduto è stata, tuttavia, esclusa dal giudice di appello, che ha ritenuto la stessa non verosimile, ritenendo così superata la presunzione, "juris tantum", di consenso del sottoscrittore al contenuto dell'atto e di assunzione di paternità dello scritto, ex art. 2702 cod. civ., accreditando la diversa ricostruzione degli appellanti. Secondo essi, infatti, il AR (rappresentante legale della società "AR RI", affittuaria di azienda facente capo proprio alla società AR ND) ebbe a firmare un foglio in bianco per consentire gli adempimenti fiscali richiesti dal comune commercialista.
3. Avverso la decisione della Corte partenopea ha proposto ricorso per cassazione la società AR ND, sulla base come detto di tre motivi.
3.1. Con il primo motivo proposto ai sensi dell'art. 360, comma - si assume violazione o falsa1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. applicazione dell'art. 342, comma 1, cod. proc. civ., nonché nullità della sentenza o del procedimento. Si censura la decisione impugnata, innanzitutto, nella parte in cui ha respinto l'eccezione di inammissibilità dell'appello sollevata dall'odierna ricorrente, che aveva dedotto la mancanza delle indicazioni prescritte dall'art. 342, comma 1, nn. 1) e 2), cod. proc. civ., vale a dire: l'indicazione delle parti della sentenza attinte da impugnazione, le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto operata dal giudice di prime cure, le norme violate, le circostanze da cui sarebbe emersa tale violazione, nonché la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. 5 Si censura la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto sufficiente, per superare l'eccezione sollevata dall'appellata, che gli eredi del AR avessero individuato "in modo chiaro ed esauriente il «quantum appellatum», circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento a specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata". Osserva, per contro, la ricorrente come la Corte partenopea avrebbe dovuto aderire a quell'orientamento della Suprema Corte, ritenuto più in linea col sistema a preclusioni rigide che caratterizza il processo civile e col novellato testo dell'art. 342, comma 1, cod. proc. civ., secondo cui "l'atto di appello, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, deve offrire una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo Giudice, per cui è necessario che contenga oltre ad una parte volitiva, che individui i passaggi della sentenza non condivisi, anche una parte argomentativa, che esponga le ragioni sulle quali si fonda il gravame con sufficiente grado di specificità, da correlare alla motivazione della sentenza impugnata” (richiama, sul punto, la ricorrente Cass. Sez. 1, sent. 27 settembre 2016, n. 18932 e Cass. Sez. Lav., sent. 7 settembre 2016, n. 17712). Nella specie, il terzo motivo di appello, in accoglimento del quale è stata pronunciata la sentenza oggi impugnata, si sarebbe sostanziato nella mera riproduzione letterale di una parte del contenuto della comparsa conclusionale di primo grado, risultando del tutto avulso dalla decisione oggetto di gravame e, pertanto, non conforme ai requisiti richiesti dalla norma del codice di rito civile sopra richiamata. 6 3.2. Con il secondo motivo proposto ai sensi dell'art. 360, - comma 1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. si assume violazione o falsa - applicazione degli artt. 2727 e 2697, comma 1, cod. civ., e 221, comma 2, cod. proc. civ., nonché nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell'art. 116, comma 1, cod. proc. civ. Secondo la ricorrente, la parte che affermi l'abusivo riempimento, "absque pactis", di un foglio da essa firmato in bianco, ha l'onere di provare i fatti storici su cui si fonda la censura, ovvero che la firma sia stata effettivamente apposta su un foglio in bianco e che il riempimento sia avvenuto successivamente, nonché a sua insaputa. Orbene, si censura la sentenza d'appello nella parte in cui ha ritenuto raggiunta la suddetta prova sulla base di presunzioni che, a ben vedere, sarebbero soltanto meri "argomenti" o "considerazioni" di controparte, come tali privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge. In particolare, laddove la sentenza Q impugnata ha ritenuto di fare proprio il rilievo degli allora appellanti (che ritenevano "probabile" che essa AR ND fosse venuta in possesso del foglio firmato in bianco "per essere stato utilizzato presso il commercialista", comune anche alla AR RI, di cui il AR era il legale rappresentante), avrebbe violato il divieto della cd. "praesumptio de praesumpto", utilizzando una prima presunzione per farne derivare un'altra presunzione. La Corte territoriale sarebbe, dunque, incorsa in violazione o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2697, comma 1, cod. civ., oltre che dell'art. 221, comma 2, cod. proc. civ., ritenendo soddisfatto l'onere probatorio incombente sull'appellante circa la dimostrazione dell'asserita falsità del contenuto del documento censurato. - a normaInfine, la ricorrente, sebbene si ritenga dispensata dell'art. 2728, comma 1, cod. civ. dall'onere di fornire una qualunque prova, stante la presunzione "iuris tantum", ex art. 2702 cod. civ. (non superata, a suo dire, da controparte), afferma di avere, 7 comunque, provato la propria domanda creditoria sulla base delle prove orali assunte, e mal valutate dalla Corte partenopea, che ha ritenuto "scarsamente articolate" le dichiarazioni testimoniali, in palese violazione del disposto di cui all'art. 116, comma 1, cod. proc. civ. -proposto ai sensi dell'art. 360, comma 3.3. Con il terzo motivo 1, n. 3), cod. proc. civ. si denuncia violazione o falsa applicazione - dell'art. 1988 cod. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha evidenziato, sia pure solo incidentalmente, che le ragioni del prestito sarebbero "rimaste sconosciute". Sul punto, la ricorrente sottolinea che la scrittura privata del 25 novembre 1997 integra una "ricognizione di debito ex art. 1988 cod. civ., che, in quanto tale, dispensa il creditore dall'onere di dimostrare il rapporto fondamentale sottostante (cd. astrazione processuale della causa debendi»), la cui esistenza si presume fino a prova contraria, nella specie non offerta dal AR, né tampoco dai suoi aventi causa". Pertanto, alla luce di tale considerazione, si assume che l'odierna ricorrente non fosse affatto tenuta a provare il titolo della effettuata dazione di denaro.
4. Ha resistito, con controricorso, all'avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità, il solo NI AR, essendo deceduta nelle more del giudizio anche ME De IM Quanto al primo motivo di ricorso, se ne chiede la declaratoria di inammissibilità ai sensi dell'art. 54, comma 1, lett. a), del decreto- legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile "ratione temporis" al presente giudizio). La disposizione viene interpretata nel senso che alla fattispecie "de qua" (querela di falso ex artt. 221 e 222 cod. proc. civ.) deve 8 applicarsi il secondo comma dell'art. 348-bis cod. proc. civ., che escluderebbe non solo l'operatività del cd. "filtro in appello" per le cause di cui all'art. 70, comma 1, cod. proc. civ. (nelle quali, come la presente, è obbligatorio l'intervento del Pubblico Ministero), ma anche dell'art. 342 cod. proc. civ.;
la Corte di Appello di Napoli non sarebbe, pertanto, incorsa in alcun vizio di omessa pronuncia, in quanto ha ritenuto, sulla scorta del disposto di cui all'art. 348-bis cod. proc. civ., non degna di scrutinio la inammissibile eccezione di nullità proposta dall'appellata. Anche il secondo motivo di ricorso sarebbe inammissibile, poiché le doglianze mosse dal ricorrente comporterebbero un riesame degli elementi di fatto, riservato al giudice di merito e, come tale, non consentito nel giudizio di legittimità, a maggior ragione se si considera che tutti i profili evidenziati dall'odierno ricorrente sarebbero già stati esaminati e rigettati dal giudice di appello con una "motivazione attenta, coerente e immune da vizi logico-giuridici". Infine, il resistente chiede che anche il terzo motivo di ricorso venga dichiarato inammissibile, poiché non vi sarebbe stata alcuna violazione o falsa applicazione dell'art. 1988 cod. civ., in quanto la Corte territoriale ha accolto la querela di falso, dichiarando la falsità del documento contestato e disponendone la cancellazione ex art. 537 cod. proc. civ., sicché tale documento avrebbe perso "ogni valore nel mondo giuridico e non può essere assimilato ad una ricognizione di debito".
5. Già discusso il 27 settembre 2018, in adunanza camerale della Sesta Sezione, Terza sottosezione, il presente ricorso veniva rinviato in pubblica udienza, ex art. 375, ultimo comma, cod. proc. civ. 9 RAGIONI DELLA DECISIONE 6. Il ricorso va rigettato.
6.1. Il primo motivo non è fondato. 6.1.1. "In limine", peraltro, va disattesa l'eccezione di inammissibilità del motivo sollevata dal controricorrente. Si assume, infatti, che le cause di falso - come, in genere, tutte quelle con intervento obbligatorio del Pubblico Ministero sarebbero sottratte all'operatività della nuova disciplina sui requisiti dell'atto di appello. Tale affermazione fraintende il contenuto dell'art. 54, comma 1, lett. a), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134. Infatti, laddove tale norma stabilisce che "il primo comma non si applica", in caso di appello "proposto relativamente ad una delle cause di cui all'art. 70, primo comma" cod. proc. civ., tra le quali rientra quella di falso (che contempla, appunto, come obbligatorio l'intervento del Pubblico Ministero), intende, con tutta evidenza, riferirsi al "primo comma" dell'art. 348-bis del codice di rito civile. Scopo della norma è, infatti, sottrarre le cause con intervento obbligatorio del Pubblico Ministero a quella modalità di definizione semplificata del giudizio di appello che consente di provvedere sul proposto gravame con ordinanza di manifesta inammissibilità, allorché esso non presenti ragionevole probabilità di accoglimento. Il "primo comma", dunque, al quale si fa riferimento non è quello dello stesso art. 54 (come, invece, reputa l'odierno controricorrente, peraltro con esegesi erronea anche dal punto di vista letterale, come si dirà appena di seguito), ovvero la norma che ha "novellato" il testo dell'art. 342 cod. proc. civ. 10 Invero, il comma 1 dell'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012 stabilisce che al codice di rito civile siano apportate una serie di modifiche, in particolare recando con la lettera Oa), inserita in sede di- conversione in legge del decreto suddetto- il nuovo testo dell'art. 342 cod. proc. civ.;
è, invece, la successiva lettera a) quella che introduce nel codice di rito civile, “ab ovo", il già citato art. 348-bis, articolo che si compone di due commi, il secondo dei quali - alla lettera a) - introduce una disciplina derogatoria del "primo comma" del medesimo art. 348-bis. Dunque, il mero esame letterale del citato art. 54 smentisce l'eccezione del controricorrente, secondo cui il primo motivo del presente ricorso sarebbe inammissibile, per essere come detto i - - giudizi di falso sottratti all'operatività dell'art. 342 cod. proc. civ., nuovo testo.
6.1.2. Ciò detto, e passando ad esaminare il presente motivo di ricorso, dello stesso va esclusa come anticipato la fondatezza. Il suo esame, naturalmente, va effettuato alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte - con pronuncia sopravvenuta rispetto alla proposizione del presente ricorso in ordine alla corretta interpretazione del novellato testo dell'art. 342 del codice di rito civile. Tale arresto, in particolare, ha enunciato il principio secondo cui gli artt. 342 e 434 cod. proc. civ., nel testo riformulato dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella I. n. 134 del 2012, vanno, si, "interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice", precisando, però, come a tal fine non "occorra l'utilizzo di 11 particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di «revisio prioris instantiae» del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata" (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01). Nel caso di specie, la sentenza pronunciata dal giudice di prime cure (come, del resto, anche quella di appello oggi impugnata), nel decidere in ordine alla falsità del documento, o meglio del suo contenuto, per essere stato lo stesso secondo la prospettazione dell'allora parte attrice in opposizione, ex art. 645 cod. proc. civ. - oggetto di un abusivo riempimento, ha operato, sulla scorta delle risultanze istruttorie in atti, un ragionamento di tipo inferenziale. In questo modo si è utilizzato un "modus operandi", come si vedrà meglio di seguito, di per sé non censurabile (salvo che non si sia tradotto in violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ.). Infatti, in base a costante giurisprudenza di questa Corte, il soggetto che proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova, e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili, in particolare, quando il disconoscimento dell'autenticità non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento del documento fuori di qualsiasi intesa, con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore. Ciò detto, pertanto, la "critica" alla sentenza gravata con appello (e, dunque, la "parte argomentativa" del relativo atto) non poteva che sostanziarsi nella riproposizione di quella "lettura" delle risultanze istruttorie idonee, a dire della parte già attrice in opposizione e poi appellante, a fornire la prova presuntiva del riempimento della scrittura "absque pactis", "lettura" proposta in contrapposizione a quella di controparte (ed accolta dal giudice di prime cure). 12 Tanto basta, dunque, per ritenere che l'allora appellante abbia soddisfatto il requisito di cui all'art. 342 cod. proc. civ.